L'Italia è il grande malato d'Europa. Negli ultimi 20 anni la crescita del PIL è stata pressoché nulla (fonte), mentre ha continuato a crescere il debito pubblico. Siamo tra i Paesi che hanno subìto di più le recessioni (quella del 2008 e quella del 2020), e tra quelli che sono cresciuti di meno nei periodi di ripresa.



I partiti italiani hanno fatto a gara a trovare capri espiatori esterni: a destra si è incolpata l'Europa, a sinistra il "capitalismo liberista", la globalizzazione etc. Lo hanno fatto (e continuano, e continueranno a farlo) perché affermare che la colpa è di qualcuno o qualcos'altro implica assolvere i propri elettori, continuando ad illuderli che il Paese non abbia alcuna colpa.

Naturalmente qualsiasi economista serio considera risibili queste diagnosi, puntando invece il dito contro i famosi problemi strutturali del Paese, ovvero:

A fronte di tutto ciò, la risposta che i partiti italiani hanno dato è da anni abbastanza unanime, con poche differenze sostanziali tra la destra e la sinistra: per far ripartire l'economia, dicono, bisogna aumentare la spesa pubblica anche a costo di fare deficit, perché solo così si genera la crescita e il deficit stesso si colmerà da solo. Nella versione "di sinistra" di questa ricetta l'aumento di spesa serve ad assumere più gente nel pubblico impiego, ad aumentare gli stipendi e salari senza far nulla per la produttività o a elargire bonus di ogni genere; nella versione "di destra", ci si limita ad abbassare le tasse senza tagliare la spesa pubblica, nella convinzione che i deficit di bilancio si appianeranno da soli.
Nessuno pare intenzionato a mettere mano all'intricata selva di privilegi e rendite di posizione coltivata dagli anni '70 ad oggi. Si mantiene (e anzi si accresce) l'enorme mole di tax expenditures, mantenendo alta la tassazione per chi non fa parte di alcuna categoria che porta voti; si continua a non applicare del tutto la direttiva Bolkestein sulla concorrenza; si continuano a buttare miliardi per tenere in vita aziende di Stato decotte e fallite; si continuano a cercare scorciatoie per mandare anticipatamente in pensione migliaia di lavoratori; si continuano a magnificare le PMI in nome di un'idea romantica di "piccolo è bello", considerandole come una "specialità caratteristica" nazionale al pari della pizza o del paesaggio, al contempo demonizzando le imprese di maggiori dimensioni (che pure offrono lavori più stabili e meglio pagati).
La ratio di tutto ciò è evidente: compravendita elettorale su scala nazionale. Si cerca il consenso delle categorie sociali più numerose a scapito dell'interesse collettivo: pensionati, pensionandi, dipendenti pubblici, evasori fiscali (in 160 anni di storia unitaria abbiamo fatto 82 condoni).

1. Riforma del sistema pensionistico: passare ad un sistema a capitalizzazione

La spesa pensionistica, in Italia, corrisponde a circa il 16% del PIL; soltanto in Grecia questa percentuale è superiore. La principale causa di ciò è il funzionamento del nostro sistema pensionistico. Esso, infatti, anche al netto delle ultime riforme, rimane a ripartizione: le pensioni dei pensionati attuali sono pagate con i contributi dei lavoratori di oggi. Le pensioni dei lavoratori di oggi saranno invece pagate dai lavoratori di domani, a patto naturalmente che ve ne siano a sufficienza. Come si può facilmente intuire, infatti, un sistema del genere può mantenersi in piedi soltanto a condizione che il numero dei lavoratori superi quello dei pensionati in rapporto di 3 a 2 (quindi 1,5 lavoratori per ogni pensionato): oggi siamo già sotto a quella soglia (1,42). Significativo, a questo proposito, il fatto che, nel 2022, per la prima volta il numero di pensioni erogate ha superato quello degli stipendi.

Poiché, dunque, i contributi dei lavoratori già oggi non bastano a pagare tutte le pensioni, lo Stato deve colmare il gap attingendo alla fiscalità generale, per cifre che ormai superano abbondantemente i 100 miliardi di euro l'anno. Per dirlo con le parole della Corte dei Conti: il 20% della spesa pensionistica INPS è a carico dello Stato.
Poiché i dati della demografia italiana sono impietosi (facciamo sempre meno figli) e l'immigrazione viene affrontata pressoché esclusivamente come un problema di ordine pubblico, se non si modifica il sistema pensionistico l'unico scenario possibile in futuro è quello di vedere aumentare sempre di più la quantità di trasferimenti di somme dalla fiscalità generale all'INPS; il che, per essere sostenibile, non potrà che tradursi in ulteriori aumenti di tasse.
In un Paese dove la pressione fiscale è già tra le più alte al mondo, ciò rappresenterebbe verosimilmente il colpo di grazia.

Ad aggravare la situazione c'è il fatto che una percentuale significativa di pensioni è ancora calcolata con le regole in vigore prima della riforma Dini del 1995, cosicché oggi c'è una parte di popolazione che incassa assegni pensionistici in larga parte non coperti da contributi versati (le cosiddette "baby pensioni" gravano ancor oggi sulle casse dello Stato per circa 7,5 miliardi di euro all'anno).
Infine, al contrario di quanto comunemente si crede, l'assegno medio è superiore ai 1200€; inoltre, sebbene sia innegabile che esistono milioni di pensioni al di sotto dei 1000€ mensili, è altrettanto vero che non di rado le persone percepiscono più di un assegno pensionistico.

In tutto ciò, l'unica risposta che la politica ha sinora saputo dare è stata l'innalzamento dell'età pensionistica, da ultimo con la riforma Fornero. Misura senz'altro efficace (vd. grafico sopra), ma annacquata da successive controriforme (Quota 100), e, soprattutto, non del tutto risolutiva: per raggiungere il fatidico rapporto di 1,5 lavoratori/pensionati occorrerebbero ulteriori innalzamenti, con scenari di pensionamento ad oltre 70 anni per le generazioni Y e Z. E' evidente che una popolazione lavorativa così anziana non giovi all'economia.

La via maestra, dunque, è una riforma organica del sistema pensionistico, con graduale passaggio da quello attuale ad uno a capitalizzazione.
In concreto, il lavoratore non sarebbe più obbligato a versare i contributi all'INPS: sarebbe libero di scegliere un fondo pensionistico privato, che investirebbe i suoi soldi e gli garantirebbe un interesse annuo. Questo porterebbe una serie di benefici, tanto al singolo individuo quanto all'economia in generale:

2. Riforma organica di fisco e sostegno al reddito: l'imposta piatta negativa

Il fisco italiano è forse uno dei più preclari esempi del malfunzionamento del Paese intero. Se il Paese è tra i primi posti al mondo per pressione fiscale, "in compenso" si trova tra gli ultimi per qualità della spesa pubblica.


Molto alta resta anche la spesa pubblica in rapporto al PIL (nel 2019 si attestava al 48,6%, vd. grafico sotto), nonostante la narrazione mainstream secondo cui nel nostro Paese esisterebbe un liberismo selvaggio incentrato su "austerità" e tagli alla spesa.



Tasse alte e spesa pubblica alta e poco efficiente, insomma. Ma c'è un altro ingrediente fondamentale, in questa ricetta: l'abnorme quantità di tax expenditures, ossia detrazioni d'imposta e deduzioni dal reddito ritagliate su misura per determinate categorie di persone. Secondo quanto affermato dal Governo nel mese di marzo 2023, il costo della spesa pubblica per le 626 detrazioni, deduzioni, bonus attualmente in vigore è pari a 165 miliardi di euro.

Ciò che dunque si propone è una riforma complessiva del fisco che elimini la stragrande maggioranza delle suddette detrazioni, per arrivare ad un'aliquota unica, sommativa di IRPEF ed IRES (e che elimini l'IRAP), al 30%, fissando a quota 15.000€ la no-tax area.

Di seguito un prospetto di quanto sarebbe il risparmio per 4 redditi ipotetici, rispetto agli attuali scaglioni IRPEF

2. 1. Negative Income Tax come ammortizzatore sociale unico

Altro ambito in cui è di fondamentale importanza intervenire è quello delle politiche attive del lavoro e del sostegno al reddito. Due ambiti che andrebbero trattati separatamente, al contrario di quanto fatto finora in Italia col Reddito di cittadinanza.

Criticità del Reddito di cittadinanza

Misura, quest'ultima, presentata dai promotori in termini quasi miracolosi, ossia in grado non solo di fornire un reddito immediato a chi si trova in condizione di povertà, ma anche di instradare i beneficiari in un percorso di inserimento lavorativo. I numeri, ancora una volta, mostrano una realtà assai distante dalle aspettative: su circa 3 milioni di percettori (che ovviamente non corrispondono alla totalità dei poveri in Italia), meno della metà sono potenzialmente pronti all'inserimento lavorativo: gli altri hanno problemi ancor più urgenti del lavoro (la casa, la salute psichica) e dunque sottoscrivono il Patto per l'inclusione sociale, anziché quello per il lavoro.
Ad ogni modo, anche tra gli idonei al lavoro esiste il gigantesco problema dell'occupabilità in termini di competenza spendibili: molti non hanno mai lavorato (se non al nero), hanno un livello d'istruzione basso, spesso non sono automuniti. Inoltre è la stessa legge a fissare dei paletti (criteri di congruità) piuttosto rigidi per le offerte di lavoro da presentare al percettore del Reddito di cittadinanza: coerenza con le esperienze e le competenze maturate, distanza dalla residenza e tempi di trasferimento mediante mezzi di trasporto pubblico, durata della disoccupazione etc.
Il fallimento della struttura messa in piedi dai governi Conte per l'inserimento lavorativo è riassumibile in un dato, fornito a gennaio 2020 dall'allora Presidente dell'Inps, Pasquale Tridico: solo il 3,63% dei beneficiari avviabili al lavoro ne aveva effettivamente trovato uno.

Ma il limite strutturale più macroscopico del RdC è che esso è un incentivo al lavoro nero, perché basato sul principio che, nel momento in cui si trova un lavoro, il sussidio si azzera, a prescindere dallo stipendio. Così il beneficiario che riceve - ad esempio - 500€/mese, anziché accettare un part-time ad 800€/mese, continuerà a percepire il RdC e arrotondare al nero: a perderci sarà solo la collettività. Viceversa, nella Negative Income Tax il sussidio ricevuto non si azzera del tutto, ma si riduce progressivamente al crescere dello stipendio ricevuto; nell'esempio riportato sopra, al momento dell'assuzione il sussidio sarebbe passato da 500 a 200€/mensili. In questo modo il cittadino si sarebbe ritrovato con un reddito mensile di 1000€/mese, di cui 800 pagati dal datore di lavoro e solo 200€ dalla collettività.

L'Imposta Negativa (Negative Income Tax) e l'Earned Income Tax Credit (EITC)

L'imposta negativa (Negative Income Tax, NIT) è una proposta elaborata dal Premio Nobel per l'economia Milton Friedman. Si tratta di uno strumento di politica economica teorizzato per sostenere le famiglie con un reddito inferiore a una determinata soglia. La differenza tra il reddito minimo garantito e il reddito percepito verrebbe di fatto coperta con un sussidio stanziato dallo Stato, in modo tale da consentire a tutti i cittadini di percepire un reddito. Il meccanismo del sussidio “tradizionale” funziona come segue: c'è una soglia G, il reddito minimo garantito. Se il proprio reddito (lordo) Y scende al di sotto di G, si riceve un sussidio pari a G - Y. Se il proprio reddito è maggiore di G, non si riceve alcun trasferimento e si pagano le tasse su Y - G. Il principio della tassazione negativa sviluppato dal professor Friedman si articola in modo diverso e si fonda sulle cosiddette “deduzioni” . Il concetto è relativamente semplice: se durante l’anno un cittadino ha un reddito superiore alla soglia minima dovrà pagare le tasse sulla differenza, se invece il suo reddito è inferiore alla soglia sarà lo Stato a versare al cittadino una percentuale della differenza. Nel caso della tassazione negativa, quindi, c’è reciprocità tra i cittadini e lo Stato, ed è costruito in modo da non disincentivare la ricerca di un’occupazione e il superamento della soglia minima. L’esempio più importante di applicazione della NIT, per numero di persone coinvolte e di investimento pubblico, e allo stesso tempo il più studiato dagli economisti, è l'Earned Income Tax Credit (EITC) negli Stati Uniti. Il programma è in vigore dal 1975 e proprio per via degli ottimi risultati ottenuti è stato ampliato più volte, dai Presidenti Reagan, Bush e Clinton, ricevendo un ampio supporto bipartisan.

Il "combinato disposto" di Flat Tax e N.I.T. porterebbe ad un fisco drasticamente più semplice, più equo e universale, svincolato dalle logiche corporativo-clientelari fin qui adottate.

Domande frequenti

La Flat Tax è un furto ai poveri?

Può esserlo o meno, a seconda di (principalmente) due fattori: l'ammontare dell'aliquota e le coperture finanziarie. Tendenzialmente, più bassa è l'aliquota, più la Flat Tax rappresenterà un vantaggio per i ricchi; viceversa, con un'aliquota alta (come nella proposta qui presentata, al 30%) c'è molta più giustizia sociale. Questo per due ragioni:

  1. Più alta è l'aliquota, più alta sarà la "no-tax area", ovvero il livello di reddito entro il quale la tassazione è zero
  2. Più alta è l'aliquota, minore sarà il mancato introito fiscale per lo Stato, e dunque minore sarà la necessità di tagliare la spesa pubblica

In Italia sono state avanzate diverse proposte di Flat Tax, da quella del tutto irrealistica di Salvini (al 15%) a quella (più realistica ma comunque ingiusta) dell'Istituto Bruno Leoni, che ipotizzava un'aliquota unica al 25%, ma includendo in ciò anche l'IVA, che sarebbe anch'essa schizzata al 25% (con tanto di eliminazione di IVA agevolata).

3. Concorrenza e liberalizzazioni

Incoraggiare la concorrenza è l'unico rimedio naturale contro la stagnante produttività delle imprese italiane. Tuttavia la classe politica italiana da sempre è unita - da destra a sinistra, passando per il centro - nel difendere privilegi e rendite di posizione di certe corporazioni (dai taxisti ai proprietari di stabilimenti balneari, passando per notai, farmacisti e altro).

Il mondo tuttavia è andato avanti, ed oggi la tecnologia decentralizza e disintermedia. Esiste  l'economia peer-to-peer. In molti Paesi esteri il trasporto locale ha visto emergere realtà Uber e Lyft, senza che ciò causasse il fallimento dell tradizionale servizio di taxi - che anzi si è visto "costretto" a migliorarsi ed aggiornarsi;  nel mondo degli affitti ha preso piede AirBnB, ed altri mercati si stanno aprendo (ad esempio quello dell'home restaurant). Si tratta di imprse che hanno abbattuto i prezzi per i consumatori, creato nuove opportunità di lavoro (per quanto spesso si tratti di "mini-jobs") e semplificato procedure altrimenti assai burocratizzate.
Queste tendenze sono inevitabili. Il compito del legislatore non può essere quello di "proteggere" i settori tradizionali che si sentono minacciati da una concorrenza bollata come "sleale" per definizione: al contrario, il suo compito è assicurarsi - tramite leggi opportune - che non si creino monopoli od oligopoli, e che la concorrenza rimanga leale. Inoltre, nel caso di imprese multinazionali, è giusto proseguire sulla strada della cooperazione internazionale per evitare elusione fiscale e tassazioni inique.

In questo scenario occorre ragionare seriamente sul sistema delle licenze e degli albi professionali, strumenti obsoleti e che di fatto rappresentano ostacoli all'ingresso nel mercato da parte delle persone; il che, a sua volta, è una delle cause principali della povertà.

3.1 Produttività

Va inoltre aggiunto che favorire la concorrenza è il miglior rimedio naturale per l'altro grande problema dell'economia italiana, la produttività. Quella italiana cresce dello 0,3% da 21 anni, risultato tra i peggiori in Europa e parecchio distante da quello degli altri grandi Paesi europei. Le cause di ciò sono tante, ma tra le principali si può annoverare il fatto che vi sono settori - ad esempio quello dei servizi - che finora sono stati tenuti "al riparo" dalla concorrenza. E, come mostra il grafico qui sotto, laddove c'è concorrenza (tradable sectors) la produttività aumenta, ben più di dove è assente (non-tradable sectors).
Dunque lo Stato può certamente dare il suo contributo alla crescita della produttività: evitando l'interventismo. E' infatti compito del mercato (cioè delle persone comuni che vanno a fare la spesa) "stabilire" chi offre prodotti e servizi migliori; le imprese meglio amministrate risulteranno più produttive e prospereranno, quelle peggio organizzate soccomberanno. Se lo Stato interferisce - ad esempio sovvenzionando con soldi pubblici le imprese improduttive - si va a distorcere il mercato, con l'unico effetto di tenere basso il livello generale.

4. Contrattazione decentrata

In un Paese come l'Italia, caratterizzato da un grosso divario in termini di produttività e costo della vita, la contrattazione salariale centralizzata rappresenta un problema molto più che una soluzione: se lo Stato impone di pagare stessi salari in zone con produttività differente, l'investitore sarà molto meno propenso a creare imprese.
Studi comparati tra la situazione in Italia e in Germania (Paese in cui esiste un analogo divario tra zone - in questo caso tra l'Est e l'Ovest - ma maggiore flessibilità salariale) hanno stimato che

Se l’Italia adottasse un sistema simile a quello della Germania – con relazioni tra salari e valore aggiunto e tra disoccupazione e valore aggiunto uguali a quelle osservate in Germania – secondo le nostre stime i salari medi nelle province meridionali diminuirebbero del 5,9 per cento (o 53 centesimi l’ora), mentre l’occupazione al sud aumenterebbe di 12,85 punti percentuali. Complessivamente il monte salari nelle province meridionali aumenterebbe in media del 16,6 per cento, ovvero di 114 euro al mese.
A livello nazionale, stimiamo che l’occupazione aumenterebbe di 5,77 punti percentuali e i salari del 7,45 per cento. Ciò equivale a circa 600 euro all’anno in più per ogni adulto in età lavorativa. Il divario nord-sud nel reddito pro capite si ridurrebbe dal 28 per cento all’11 per cento.

Naturalmente questa proposta incontra da sempre l'opposizione dei sindacati, timorosi (oltre che di perdere importanza) che la contrattazione decentrata vada a creare stipendi "di serie A" nel centro-Nord e di "serie B" al Sud; ma ciò, ripetiamo, non sarebbe altro che il naturale adattamento a divari di produttività e costo della vita che già esistono.

5. Lotta alla corruzione: meno leggi, più SPID e Intelligenza Artificiale

In Italia vige una concezione demenziale dell'attività legislativa. Per prima cosa, vi è la diffusa idea che la produttività del Parlamento si misuri in base a quante leggi vara, col sottinteso che più ne produce meglio è. Questa convinzione ha portato oggi l'Italia ad essere un Paese iper-regolamentato: solo a livello centrale sono in vigore quasi 110.000 leggi (di cui 33.000 regi decreti); a questi vanno sommati gli atti normativi degli enti locali.
Le conseguenze di avere un numero eccessivo di leggi sono ben note agli economisti: sono le leggi a generare i burocrati, ed è l'eccesso di burocrazia a generare la corruzione. Lo hanno spiegato bene Giavazzi e Barbieri, nel libro I signori del tempo perso.

Ogni regola richiede qualcuno che controlli che i cittadini la rispettino: vigili che verifichino che nel bagagliaio le catene da neve ci siano davvero, e che i salvagente sul barchino rispettino il D.M.20.4.1978, vigili del fuoco che diano i permessi per la costruzione di locali pubblici e funzionari CONSOB che controllino i documenti che la banca fa firmare ai clienti, se mai lo fanno. Sono le regole che rendono necessaria una burocrazia. Il guaio è che i burocrati non sono soggetti passivi (…) Sono individui e istituzioni che fanno i loro interessi. Come tutti. 

Che vi sia un nesso diretto tra eccesso di leggi e corruzione è stato confermato anche da esperimenti effettuati in diversi Paesi nel mondo. Gli autori citano quello di Hernando De Soto, in Perù, negli anni '80.

All’inizio degli anni Ottanta l’economista peruviano Hernando De Soto (…) torna a Lima, ed è colpito dall’enorme povertà che incontra sui marciapiedi e per le strade della capitale. Centinaia di bancarelle abusive (…) dove si vende di tutto (…). Dopo essersi confrontato con numerosi commercianti illegali, De Soto avvia un’innovativa indagine per capire quali siano gli ostacoli che impediscono a questi piccoli imprenditori di aprire un negozio e inserirsi nell’economia legale. Il risultato è che l’enorme quantità di regole da seguire per aprire una piccola attività rende economicamente più vantaggioso restare nell’illegalità. (…) La ricerca doveva avvenire a una condizione precisa: non sarebbero state pagate tangenti se non quando fosse stato a rischio il proseguimento dell’esperimento. (…) Durante questi mesi vengono chieste tangenti per accelerare le pratiche in 10 occasioni diverse. In 2 di queste le mazzette vengono pagate perché non c’è altro modo per proseguire l’esperimento. In tutti gli altri casi i ricercatori si rifiutano di versarle, al costo ovviamente di una maggiore perdita di tempo per ottenere le autorizzazioni necessarie.
(…)
Successivamente, il team di De Soto svolge lo stesso esperimento in altri Paesi emergenti, con risultati simili a quelli del Perù. In Egitto, ad esempio, chi vuole acquistare e registrare un lotto di deserto deve affrontare 77 procedure amministrative di 31 diversi uffici pubblici: il tempo necessario varia tra i 5 e i 14 anni.

Nonostante tutto ciò, in Italia resta ancora forte la convinzione, da parte della stragrande maggioranza dei partiti e dell'opinione pubblica, che la corruzione si combatta con la formula "ancora più leggi, ancora più controllori" e l'immancabile "pene più severe". Peccato che ogni regola in più renda ancora più conveniente la corruzione, e ogni controllore aggiuntivo è un potenziale corrotto o concussore. Quanto alle "pene più severe": prima che vengano comminate occorre che il reato sia scoperto, che si celebri il processo e che questo si concluda prima che il reato si estingua per prescrizione.

Un'altra non-soluzione è stata quella proposta nell'ultimo decennio dal M5S: rimpiazzare i disonesti con gli onesti. Laddove questi ultimi sarebbero semplicemente coloro che hanno una fedina penale pulita.
A parte il fatto che questa operazione riguarderebbe soltanto il livello più alto - quello della politica - e non intacca minimamente quello dei burocrati-amministratori, c'è soprattutto da considerare che la presunta onestà di una persona si appura quando questa, avendo la possibilità di delinquere, sceglie di non farlo; troppo facile proclamarsi onesti se non si è mai amministrato niente neanche a livello locale, e dunque non si è mai neanche ricevuta alcuna "proposta indecente".

5.1 Potenziamento di SPID

L'approccio che proponiamo noi è molto diverso.
L'idea è innanzitutto di ridurre drasticamente le leggi e regolamentazioni attualmente esistenti, e in secundis di disintermediare quanto più possibile il rapporto tra cittadini e P.A., sostituendo l'uomo con la macchina ovunqe possibile e potenziando uno strumento che già esiste e che funziona bene: SPID, il Sistema Pubblico di Identità Digitale.
Attualmente SPID viene utilizzato in modo inadeguato, per le potenzialità che avrebbe. Di fatto esso costituisce un metodo di accertamento dell'identità di un cittadino, e dunque potrebbe - se ci fosse la volontà politica di permetterlo - tranquillamente essere usato in luogo di tutta una serie di operazioni che oggi necessitano della presenza di un notaio o di CAF.
SPID dovrebbe essere assegnato a ciascun cittadino direttamente alla nascita, come avviene per il codice fiscale; e potrebbe essere integrato con un servizio di posta elettronica certificata, che funga come canale primario di comunicazione tra cittadino e P.A.

5.2 Intelligenza artificiale nella PA

L'implementazione di servizi di AI nella Pubblica Amministrazione potrebbe migliorare drasticamente l'efficienza di quest'ultima. Si pensi anche solo, banalmente, alle relazioni col pubblico: anziché estenuanti attese al telefono per parlare con un fatidico operatore, un servizio di Intelligenza artificiale potrebbe rispondere a migliaia di utenti contemporaneamente, fornendo risposte precise ed accurate. La tecnologia esiste: l'unico ostacolo è la volontà politica.