Istruzione

(…) quello dell’istruzione è l’unico settore della società italiana in cui la produttività è in costante diminuzione da oltre mezzo secolo. Che cos’è la produttività dell’istruzione? (…) è l’inverso del numero di anni necessari per raggiungere un determinato grado di organizzazione mentale. Supponiamo di assumere, come metro, il livello di organizzazione mentale – conoscenze, padronanza del linguaggio, capacità logiche – di un diplomato di terza media del 1962, l’ultimo anno prima dell’introduzione della scuola media unica. A lui erano occorsi otto anni di studio per raggiungere quel livello. Quanti ne occorrono oggi per raggiungere un livello comparabile? (…) la mia risposta è che (…) siano necessari da un minimo di cinque anni in più (se si è frequentato un buon liceo classico) ad un massimo di tredici anni in più (se occorre addirittura un dottorato di ricerca per recuperare pessimi studi precedenti). (…) Se mi baso sulla mia esperienza di docente universitario, non posso non constatare che la padronanza della lingua italiana (tuttora richiesta dalla maggior parte dei concorsi pubblici) (…) è presente in una minoranza dei laureati, mentre ancora a metà degli anni sessanta era per così dire “automaticamente incorporata” nel titolo di terza media inferiore.

Luca Ricolfi, La società signorile di massa

L'idea che la scuola debba rimanere un quasi-monopolio statale sembra pressoché un dogma, nel nostro Paese. L'istruzione - si dice - è un qualcosa di troppo delicato per affidarla al mercato; tutti devono ricevere un'istruzione di qualità e a basso costo, perché la scuola è "l'ascensore sociale" per antonomasia, lo strumento che dovrebbe permettere al figlio del contadino di poter diventare direttore di banca.
A questo assunto si potrebbe replicare con una frase di Margaret Tatcher:

Niente è più strategico del cibo, ma questa non è una ragione valida per far piantare patate allo Stato

In effetti, se nel contrasto alla povertà i Paesi adottassero la stessa logica che usano per l'istruzione, il meccanismo dovrebbe prevedere di assumere migliaia di contadini di Stato per produrre cibo, e migliaia di camionisti per trasportarlo in appositi supermercati di Stato, in cui i poveri potrebbero far spesa gratis esibendo apposita certificazione ISEE. Tutto ciò, ovviamente, non accade: i poveri vengono aiutati con trasferimenti di denaro, che sono liberi di spendere nel supermercato (privato) che più li aggrada. Il fatto che neanche i partiti più ferocemente statalisti si sognino di proporre quanto ipotizzato sopra dovrebbe far riflettere.

Tuttavia, come detto, se dal cibo il discorso si sposta sull'istruzione, nella mente dei più scatta un automatismo che fa gridare allo scandalo; si continua a ritenere non solo naturale, ma inevitabile avere i docenti di Stato, i Presidi di Stato, i bidelli di Stato etc. Il tutto nonostante il palese, innegabile declino che la scuola pubblica italiana patisce da lustri.

La scuola pubblica: anatomia di un disastro

La scuola italiana rappresenta forse il più macroscopico esempio di fallimento gestionale da parte dello Stato; al tempo stesso, è emblematico della convinzione, da parte della classe dirigente italiana degli ultimi 4-5 decenni, di poter "controllare la natura" a forza di leggi parlamentari.

Il problema di fondo della scuola italiana è riassumibile in un confronto: quello tra i risultati dei test INVALSI e il profluvio di 100 (spesso cum laude) che puntualmente si verifica ogni anno.
Da un lato i test INVALSI rivelano che circa il 40% degli studenti italiani nelle scuole superiori (con le solite enormi differenze tra Nord e Sud, tra classi sociali e tra i tipi di scuola) non raggiunge risultati adeguati in italiano, matematica e inglese (si veda il report per i dettagli). Se è vero che l'anno della pandemia e il conseguente ricorso alla DAD ha esasperato i problemi, è altrettanto innegabile essi già esistevano, e che la tendenza al declino è riscontrabile da almeno tre lustri.
A stridere completamente con queste rilevazioni (che, è bene ricordarlo, sono standardizzate per tutto il territorio nazionale ed europeo) c'è, come si diceva, l'annuale proliferare di diplomati col massimo dei voti, che peraltro raggiungono la massima concentrazione proprio in quelle zone (il Sud) che faticano maggiormente con gli INVALSI. Il perché è tanto evidente quanto spiacevole da dire: esiste una discrepanza enorme tra il metro di giudizio - molto arbitrario - delle commissioni d'esame (anche dopo che sono state "esternalizzate") e quello "freddo e meccanico" dei test INVALSI (o degli OCSE-PISA). Naturalmente la reazione del mondo della scuola (e di una parte della politica) a tale considerazione è stata uno scagliarsi contro i test INVALSI, accusati di inaffidabilità proprio in quanto standardizzati, nonché eccessivamente nozionistici; la valutazione, è il pensiero diffuso, non può tener conto soltanto delle nozioni, e soprattutto non può essere così impersonale.
Ora, chiunque abbia lavorato nella scuola negli ultimi anni e sia dotato di un minimo di onestà intellettuale, ammetterà che c'è stato un progressivo e drastico abbassamento delle aspettative nei confronti delle performance degli studenti, a cui si richiede sempre meno per ottenere la sufficienza (nonché l'eccellenza). Una tendenza che riguarda non solo la scuola dell'obbligo, ma anche l'Università (vd. sotto).

Ma a cosa è dovuto tutto ciò? La causa è da ricercarsi nella precisa volontà politica delle classi dirigenti italiane degli ultimi 3-4 decenni.

Le stesse classi dirigenti che pensavano di combattere la povertà stampando denaro, hanno pensato di combattere l'ignoranza stampando diplomi e lauree.

A fronte di statistiche che mostravano una bassa quantità di diplomati e laureati, si è pensato di risolvere il problema rendendo più facile il conseguimento dei titoli di studio, naturalmente mantenendone il valore legale. E tuttavia le leggi della natura (categoria in cui rientrano anche quelle economiche) non si possono mutare a forza di decreti: diplomi e lauree si sono svalutati (esattamente come la lira negli anni '80), e di certo non è un caso se oggi, per ambire a posizioni lavorative per cui un tempo bastava una laurea, si debba avere in tasca master, specializzazioni e altri corsi post.

Un disastro organizzativo

Vi è poi il problema organizzativo. Da anni, ormai, ogni Ministro dell'Istruzione si produce in solenni promesse di arrivare all'inizio del successivo anno scolastico con "tutti i docenti in cattedra", salvo poi rendersi conto dell'impossibilità di mantenere la promessa. Le cause sono note: a fronte di un numero di pensionamenti annuali nell'ordine di migliaia di unità, lo Stato non riesce ad organizzare regolarmente concorsi pubblici per nuove assunzioni (e in ogni caso, quando li organizza, spesso il problema non viene comunque risolto, viste le alte percentuali di bocciati). Così si fa sempre più massiccio ricorso alle supplenze, affidate a docenti precari che non hanno sostenuto alcun concorso (cosa che di per sé non implica che siano necessariamente meno bravi rispetto ai loro colleghi stabilizzati, con buona pace di questi ultimi). L'assurdità delle regole per l'affidamento delle supplenze, poi, fa sì che possano passare settimane (talvolta mesi) prima che una classe inizi il programma di una certa materia, stante la difficoltà dell'Istituto a reperire un supplente; altrettanto tipico è poi lo scenario in cui il/la supplente cessi la docenza prima della fine dell'anno scolastico (magari perché nel frattempo ha ricevuto un'altra proposta più allettante), costringendo la scuola a ripetere la procedura. Ormai è quindi considerata normalità il fatto che, nell'arco di un anno, una classe cambi anche tre o quattro docenti di una o più materie: le conseguenze di tutto ciò sull'efficacia della didattica sono facilmente intuibili.

Altrettanto frustrante è diventata ormai la vita lavorativa dei docenti. In primis perché viene richiesto loro di dedicare sempre più tempo ad adempimenti burocratici (riunioni, compilazione di scartoffie spesso del tutto inutili), con ovvie ripercussioni sulla qualità della loro docenza; in secundis perché nel corso degli anni è venuto progressivamente meno il prestigio sociale della professione, al punto che ormai non fanno neanche più notizia le aggressioni verbali (e tavolta fisiche) ad opera di studenti o addirittura genitori. Il tutto a fronte di un trattamento economico definibile "dignitoso" solo per alcune aree del Paese.

Non meno importante è il problema del cosa e come si insegna nelle scuole italiane. In un mondo sempre più matematico, scientifico, tecnologico ed economico, i ragazzi italiani restano indietro proprio in queste discipline (le c.d. STEM), mentre una parte corposa della classe dirigente italiana proviene da quel liceo classico fermo ad un mondo pre-moderno e pre-scientifico, dove ancor oggi si teorizza il primato del saper parlare sul saper cosa dire, e per questo si da molta più importanza alle materie umanistiche rispetto a quelle scientifiche.

Eppure, a detta di gran parte del mondo intellettuale italiano (nonché di una vasta parte dei docenti) il problema sarebbe l'opposto: la scuola italiana viene accusata di essere una sorta di fabbrica di automi decerebrati da mandare in fabbrica, dominata da logiche "aziendalistiche" e avente come unico scopo quello di avviare al lavoro. Questa visione non trova conferma né nelle statistiche (quasi il 60% degli studenti sceglie il Liceo, a fronte di un 30% che opta per gli istituti tecnici e solo l'11% per i professionali) né tantomeno nella percezione delle imprese, che anzi da anni denunciano una cronica carenza di competenze pratiche (inglese, informatica) nei ragazzi.

1. Abolizione del valore legale del titolo di studio

Crediamo che il valore legale del titolo di studio sia un grosso problema. Ad esso si deve la tendenza della quasi totalità non solo degli studenti, ma anche e soprattutto delle loro famiglie, a concentrarsi esclusivamente sul voto in pagella, senza preoccuparsi che dietro di esso ci sia una reale conoscenza. Per gli insegnanti è ormai diventato normale ritrovarsi a colloquio con genitori inviperiti per dei voti bassi (ritenuti "immotivati" a prescindere), mentre è pressoché impossibile imbattersi in qualcuno che protesti perché la prole ottiene voti troppo alti studiando pochissimo. Il fatto che, nei concorsi pubblici, un 100&lode preso in un diplomificio conti più di un 96 preso in un istituto serio, innesca un deleterio circolo vizioso:

L'abolizione del valore legale del titolo di studio stroncherebbe alla radice il circolo vizioso sopra descritto: la qualità della didattica tornerebbe ad avere un peso maggiore rispetto al mero voto sul pezzo di carta, e tra le scuole si creerebbe una vera competizione per fornire l'istruzione migliore.

2. Fuori lo Stato dalla scuola. Passare al modello-voucher.

Ciò che proponiamo è una riforma radicale dell'istruzione, incentrata sul sistema dei Voucher. In poche parole, lo Stato, anziché continuare a gestire direttamente le scuole pubbliche, affiderebbe il compito a soggetti privati, corrispondendo alle famiglie una somma di denaro (indicativamente tra i 5000 e i 7000€/anno) per ogni figlio in età scolastica. I privati avrebbero totale autonomia organizzativa in materia di assunzioni del personale (docente e non), scelta dei libri di testo, organizzazione interna.
Allo Stato resterebbero alcuni compiti "basici": verificare l'integrità fisica delle strutture, fornire delle indicazioni di massima sugli obiettivi minimi da raggiungere al termine della scuola dell'obbligo, monitorare l'andamento dell'istruzione tramite i test INVALSI e/o altri strumenti.

Questi i principali vantaggi:

Stipendi degli insegnanti

La riforma del fisco che proponiamo (30% sul reddito che supera i 15.000€) appensatirebbe di molto la busta paga degli insegnanti (così come di qualunque altro lavoratore) rispetto alla situazione attuale (3.450 euro + 25% sul reddito che supera i 15.000€ fino a 28.000€).
Siamo invece contrari ad aumenti di stipendio erga omnes, indipendentemente da cosa viene insegnato e -soprattutto- da come lo si insegna. Dare a chi si impegna al massimo lo stesso stipendio di chi si impegna al minimo è un poderoso disincentivo a lavorare bene, e ovviamente è un problema che non riguarda soltanto la scuola, ma la PA in generale; nella scuola, tuttavia, questa distorsione si sta manifestando in modo sempre più evidente negli ultimi anni. Ci riferiamo alla penuria di insegnanti di materie STEM, e in particolare di matematica: in un sistema di mercato, in virtù della banale legge della domanda e dell'offerta, le scuole potrebbero attirare gli insegnanti di queste discipline offrendo loro stipendi importanti, paragonabili a quelli che percepiscono nel settore in cui operano. Viceversa, nell'attuale sistema statale ciò non è possibile: per pagare di più gli insegnanti delle STEM occorrerebbe alzare lo stipendio a tutti gli insegnanti, dato che la loro retribuzione è stabilita nei contratti collettivi nazionali.

Obiezioni frequenti

Non c'è il rischio che le scuole private si mettano ad assumere parenti/amici/conoscenti, magari incapaci?
Il rischio di assunzioni clientelari esisterebbe solo nel caso in cui i Dirigenti Scolastici continuassero ad essere dipendenti dallo Stato, in una sostanziale intoccabilità: il legislatore italiano lo sa bene, ed è per questo motivo che non ha mai voluto introdurre la chiamata diretta.
In un sistema di mercato concorrenziale, al contrario, assumere dipendenti incapaci non porta alcun vantaggio; la reputazione della scuola crollerebbe, e con essa il numero di iscritti. I Dirigenti Scolastici sarebbero manager a tutti gli effetti, e dovrebbero competere per attrarre i migliori insegnanti.

Non si creerebbero scuole di serie A e di serie B, con forte classismo?
Come detto sopra, questa è la situazione attuale, stando alle statistiche disponibili. I licei sono appannaggio pressoché esclusivo di studenti provenienti da famiglie a reddito medio-alto, mentre gli istituti tecnici e professionali sono frequentati da ceti più bassi. Il sistema dei Voucher potrebbe garantire una mobilità sociale maggiore rispetto alla situazione attuale.

Ma così sarebbe il trionfo della mercificazione del sapere! La scuola deve insegnare agli studenti ad esercitare il pensiero critico, non può ridursi ad un contenitore di compiti e verifiche! E' la mercificazione del sapere, funzionale ad abituare i ragazzi al sistema capitalista!
Questo modo di ragionare è largamente diffuso presso un certo tipo di insegnanti. L'idea di fondo è che l'acquisizione di nozioni e la loro verifica (anche tramite test a crocette) sarebbe incompatibile con lo sviluppo di un pensiero critico. Una mentalità che, nel corso degli anni, in nome della guerra al nozionismo si è progressivamente tolto spazio alle nozioni stesse, con risultati disastrosi, osservabili paradossalmente proprio nelle discipline umanistiche più che in quelle scientifiche. Alle elementari non si fanno più dettati, non si imparano più a memoria le poesie e nemmeno le tabelline, e in generale non si danno più libri da leggere. Si chiede agli studenti di esprimere opinioni su vicende storiche anche molto complesse, senza accertarsi che conoscano le date o i nomi dei protagonisti. Come detto sopra, è il primato del saper argomentare sull'avere degli argomenti.

3. Riforma della scuola dell'obbligo

Dal 5+3+2 al 5+5

Attualmente l'istruzione obbligatoria è fino a 16 anni, ed è ripartita in un modo che, nonostante mille riforme, risente ancora parecchio dell'impianto gentiliano. 5 anni di scuola elementare, poi 3 di medie e altri 2 di scuola superiore secondaria. Tutto ciò presenta dei problemi.

Primo, la scuola dell'obbligo dovrebbe essere teoricamente essere "unificata e gratuita" per tutti, ma nei fatti è unificata solo fino a 13 anni: finite le medie, il percorso si differenzia a seconda della scuola superiore che ciascuno sceglie.

Secondo, l'attuale sistema costringe i ragazzi, a soli 13 anni, a fare una scelta che rischia di condizionare la loro intera esistenza; un positivo effetto collaterale potrebbe essere il superamento di alcuni stereotipi di genere relativi alle materie, con la situazione attuale che vede alcune scuole (d'indirizzo umanistico) frequentate in larghissima maggioranza da femmine e altre (d'indirizzo tecnologico-scientifico) da maschi. Incidere sugli stereotipi di genere in un paese in cui il tasso di occupazione femminile è tra i più bassi dei paesi Ocse è una sfida cruciale per lo sviluppo e la cittadinanza.

Quello che proponiamo è quindi di riformare l'istruzione obbligatoria suddividendola in **due cicli di 5 anni ciascuno** (elementari e medie), unificati e uguali per tutti, seguiti da 3 anni di superiori.

4. Passare alle classi (e valutazioni) per materia

Proponiamo di modificare l'attuale assetto delle scuole superiori, introducendo le classi per materia. Il percorso dello studente progredirebbe in modo separato per ciascuna materia, ed un'eventuale bocciatura in una di esse non precluderebbe il progresso nelle altre. Attualmente infatti la bocciatura in un anno comporta che l'alunno ripeta tutto il programma scolastico, comprese le discipline in cui ha ottenuto voti superiori alla sufficienza. Naturalmente per conseguire il diploma occorrerebbe aver raggiunto un minimo "punteggio" in tutte le materie, ma l'iscrizione ai corsi universitari non sarebbe più preclusa a chi non ha il diploma: le varie facoltà stabilirebbero in quali materie occorre aver conseguito un certo punteggio per poter seguire i corsi. Il diploma potrebbe essere conseguito in un secondo momento (senza limiti temporali), superando esclusivamente gli esami che mancano per raggiungere il punteggio minimo. Questo meccanismo potrebbe a nostro avviso incoraggiare la prosecuzione degli studi a livello universitario; fattore, questo, di vitale importanza in un Paese che ha un numero di laureati nettamente inferiore alla media europea e tra i più bassi in assoluto nel continente.