Patente per il voto

Cinque italiani su cento tra i 14 e i 65 anni non sanno distinguere una lettera da un’altra, una cifra dall’altra. Trentotto lo sanno fare, ma riescono solo a leggere con difficoltà una scritta e a decifrare qualche cifra. Trentatré superano questa condizione ma qui si fermano: un testo scritto che riguardi fatti collettivi, di rilievo anche nella vita quotidiana, è oltre la portata delle loro capacità di lettura e scrittura, un grafico con qualche percentuale è un’icona incomprensibile. Secondo specialisti internazionali, soltanto il 20% della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea.

Tullio de Mauro

Questo scriveva, ormai molti anni fa, il linguista ed ex Ministro Tullio de Mauro. E questo è ciò che ormai annualmente viene confermato da indagini nazionali e internazionali, dai famigerati dati sull'analfabetismo funzionale dell'OCSE ai risultati dei test PISA sulla scuola italiana.

8 italiani su 10 non sono in grado di capire un articolo di giornale o interpretare un grafico. Eppure lo Stato, attraverso il suffragio universale, riconosce loro un potere decisionale pari a quello di un aspirante Premio Nobel.

Riteniamo che questa situazione non sia più tollerabile, e che la prima e imprescindibile riforma da attuare nei prossimi anni sia quella del diritto di voto. In particolare si propone di vincolare l'esercizio del voto al conseguimento di un'apposita patente, ottenibile previo superamento di un esame con cui il candidato dimostri:

  1. di possedere minime capacità critico-verbali e logico-deduttive
  2. di possedere capacità di comprensione di un testo di media difficoltà
  3. di conoscere almeno i princìpi fondamentali della Costituzione italiana

C'è un motivo se i bambini non votano

Benché molte persone reagiscano con sdegno e disgusto all'ipotesi di limitare il diritto di voto in base a conoscenza dimostrata, occorrerebbe riflettere sul fatto che già oggi il diritto di voto non è realmente universale: occorre aver raggiunto la maggiore età per eleggere i deputati alla Camera e al Senato.
Perché? Semplice: si da per scontato che un individuo, se "troppo" giovane, non abbia sufficiente cognizione del mondo, e dunque concedergli il diritto di voto significherebbe, di fatto, estendere quello dei suoi genitori/tutori, che potrebbero facilmente manipolarlo. La scelta di concedere la facoltà di voto in base all'età anagrafica è puramente convenzionale, e infatti non è unanime in tutto il mondo: in alcuni Paesi il diritto di voto si acquisice a 18 anni, in altri a 16, in altri ancora in età diverse.
La scelta dei 18 anni, comunque, almeno in Italia risponde ad un criterio apparentemente banale: a quell'età l'individuo ha terminato la scuola dell'obbligo, e dunque dovrebbe disporre di un bagaglio di conoscenze sufficienti a seguire il dibattito pubblico sui più disparati temi. La citazione di De Mauro all'inizio di questa pagina (nonché gli impietosi risultati dei test INVALSI) dimostra quanto questa supposizione sia lontana dalla realtà.

Perché la gente non si informa?

Molti sostenitori del diritto di voto così com'è oggi, interpellati sul fenomeno della disinformazione di cui supra, rispondono incolpando i divulgatori scientifici, la scuola, i media etc. Insomma: tutti tranne gli elettori. Se la gente è disinformata e ignorante, cioè, non dipende dalla gente stessa, ma dalla "classe dirigente" (in senso lato) che non ha saputo educarla.

A questa semplicistica tesi ha risposto Jason Brennan, docente della Georgetown University nonché autore di Contro la democrazia. Spiega Brennan che la disinformazione politica è un esempio di "ignoranza razionale", un fenomeno a suo dire ben noto agli economisti e spiegabile con la microeconomia.
Il concetto di fondo è il seguente: dato che informarsi e studiare costa tempo e fatica, ciascuno di noi decide se farlo o meno facendo, di volta in volta, una sorta di analisi costi-benefici. Se ad esempio decidiamo di andare in vacanza in un luogo esotico, è assai probabile che spenderemo del tempo a documentarci sulle malattie che rischiamo di prendere e sui relativi vaccini, prima di partire; così come impiegheremo altro tempo per scegliere l'albergo che offre il miglior rapporto qualità-prezzo. Si tratta di situazioni in cui la disinformazione ci procurerebbe dei danni a livello individuale, e soprattutto la responsabilità di ciò ricadrebbe esclusivamente su noi stessi.
Ora, nel caso del voto la situazione è assai diversa. Proprio perché non esiste alcun tipo di incentivo per chi si reca alle urne informato, né di disincentivo per chi non lo fa, il piatto della bilancia con scritto "benefici" risulta vuoto; documentarsi costa tempo e fatica intellettuale, e a fronte di questo sforzo c'è il fatto che il voto informato vale esattamente quanto quello disinformato.
A ciò si deve aggiungere la deresponsabilizzazione: se il partito per cui abbiamo votato va al governo e combina disastri, la responsabilità può essere nostra soltanto in minuscola parte, dato che il nostro voto, preso individualmente, ha inciso pochissimo sul risultato finale.

Il voto è una scelta che riguarda anche la vita degli altri

Il motivo principale per cui usiamo qui il vocabolo patente per il voto è la volontà di sottolineare il fatto che il voto disinformato può essere pericoloso quanto la guida di un veicolo senza aver conseguito la patente. Posto che il diritto a guidare un veicolo è riconosciuto universalmente in ogni Paese decente, è altrettanto evidente che far condurre un'automobile a chi ignora il significato dei cartelli stradali rappresenta un pericolo non solo per il conducente stesso, ma soprattutto per la collettività.
Ebbene, riteniamo che il principio possa essere analogamente applicabile anche al voto.

FAQ

1. Non sarebbe incostituzionale?

Molto probabilmente no. L'articolo 48 della Costituzione stabilisce espressamente che l'incapacità civile e l'indegnità morali sono fattori che posson olimitare il diritto di voto, e precisa che è la Legge a stabilire chi rientra in queste categorie. Fino al 2006 rientravano nel novero dei moralmente indegni anche gli imprenditori falliti, a cui per 5 anni veniva negato il diritto di voto.
Riteniamo assolutamente ragionevole considerare "civilmente incapaci" coloro che non possiedono strumenti culturali sufficienti a comprendere la complessità della società odierna.

2. C'è il rischio che chi decide le domande le orienti in modo tendenzioso

Questo rischio è meramente teorico: le domande dovrebbero riguardare fatti oggettivi e verificabili, non certo opinioni e punti di vista. Al candidato potrebbe essere chiesto, ad esempio, da chi vengono eletti i membri del CSM, o quali siano i poteri del Presidente della Repubblica, o ancora cosa dica un determinato articolo della Costituzione.
Quanto ai quesiti finalizzati a misurare le abilità logiche, c'è da tener presente che già oggi lo Stato italiano dispone di una vasta banca dati a cui attingere (RIPAM), come sanno bene tutti coloro che hanno provato almeno una volta a partecipare ad un concorso pubblico. E' assai arduo sostenere che quesiti di quel genere possano essere politicamente orientati in una qualsiasi direzione.

3. Voterebbero solo i ricchi

I numeri che abbiamo a disposizione mostrano che chi proviene da famiglie benestanti ha effettivamente maggiori possibilità di arrivare a gradi di istruzione più elevata; è dunque realistico pensare che il corpo dei votanti, in uno scenario qui preso in esame, sarebbe composto (almeno in un primo momento) per lo più da persone di ceto medio-alto.
Tuttavia, questa obiezione si basa su tre presupposti:

  1. che le persone ignoranti siano in grado, malgrado la loro ignoranza, di valutare quali politiche possano portare maggiori benefici a sé stessi e alla collettività
  2. che i suddetti ignoranti possano vedere tutelati i propri interessi solo se esercitano direttamente il voto, perché
  3. le persone benestanti/istruite sono ipso facto egoiste, e dunque voterebbero esclusivamente per partiti che garantiscano loro privilegi e rendite di posizione.

Nessuno di questi presupposti è ragionevole. Soprattutto il primo.

Pressoché chiunque di noi potrà affermare di aver sperimentato, almeno una volta nella vita, quanto una scelta presa in modo disinformato possa procurarci un danno, e quanto invece avremmo fatto meglio a dar retta ai consigli di qualcun altro.
Chi non conosce i più basilari meccanismi dell'economia penserà che stampare moneta comporti solo vantaggi, o che il protezionismo sia una buona idea; e chi fatica a seguire ragionamenti poco più che elementari penserà che introdurre "pene più severe" contro qualsivoglia reato basti a dissuadere le persone dal commetterlo.
In breve: è sufficiente leggere un qualsiasi manuale di storia senza il paraocchi dell'ideologia per rendersi conto di quante decisioni prese a furor di popolo abbiano causato immani sofferenze al popolo stesso. D'altro canto, svariate ricerche scientifiche hanno dimostrano che ad un maggiore livello di informazione e cultura corrisponde maggiore propensione a politiche più progressiste, tolleranti e inclusive.

4. Non tutti gli ignoranti sono tali per scelta o colpa propria: alcuni lo sono per cause di forza maggiore

Su questo non c'è dubbio: come detto, svariate indagini statistiche mostrano che in Italia la scuola non sia più (o forse non lo è mai stata) "l'ascensore sociale" che dovrebbe essere: una parte considerevole degli alunni del Liceo Classico proviene da famiglie in cui almeno uno dei genitori ha fatto il Classico, mentre negli istituti professionali lo scenario è assai diverso. Siamo consapevoli di questa situazione, ed è per questo che nel programma c'è una vasta sezione dedicata alla riforma della scuola.
Tuttavia, stabilire di chi o cosa sia la colpa per la disinformazione/ignoranza individuale qui è del tutto secondario. Restando sul parallelismo della patente di guida, non c'è dubbio che nascere ciechi sia una disgrazia di cui il cieco non ha alcuna colpa: non per questo lo Stato permette a chi è cieco dalla nascita di condurre una vettura.
Occorre tralasciare quelle che Brennan chiama argomentazioni semiotiche a favore del suffragio universale: il diritto di voto non dovrebbe essere considerato una patente di dignità per gli individui, bensì un diritto civile (civile, non umano) che - come detto - può incidere sulla vita non solo dell'elettore preso individualmente, ma anche degli altri.